La Cantina Toso, con i suoi 105 anni, ha attraversato la parte migliore e più vivace della storia del vino piemontese, in particolare quella della Valle Belbo che ha legato le sue fortune al Moscato, all’Asti, agli spumanti e ai vermouth. Per dare il giusto rilievo a questo passato e al proprio, nel 2001 la Toso ha dedicato uno spazio della propria sede ai documenti e alle immagini del lavoro e del progresso tecnico che hanno accompagnato i decenni passati. È nato così l’Enomuseo Toso, il filo diretto con la storia aziendale e con la tradizione enologica del territorio. Nel 2015, questo Museo ha celebrato il suo quindicesimo anno di attività.
Tre Sale espositive
Dal punto di vista espositivo, L’Enomuseo Toso è composto di tre sale: la Sala del Vermouth, la Sala Inferiore e la Sala Superiore. Particolarmente intrigante è l’ambiente dedicato alla produzione del Vermouth. Tutto si muove al centro della Sala attorno al “Tavolo dell’erborista”, che accoglie le principali essenze utilizzate nella lavorazione del Vermouth e dei liquori. Alle pareti, una ricca esposizione di vecchie bottiglie di Vermouth Toso, a conferma del forte legame che unisce la Casa di Cossano Belbo a questa speciale produzione piemontese. Nella grande Sala Inferiore, L’Enomuseo espone le macchine e gli attrezzi dell’azienda agricola del passato, soprattutto quelle per i lavori in vigna e cantina, da metà Ottocento in poi. Più variegata è la Sala Superiore: essa cataloga vari attrezzi differenti tra loro, dai numerosi esemplari di macchine irroratrici manuali per i trattamenti antiparassitari ai tanti cavatappi e alle etichette di varie epoche della Toso. Tutto questo insieme agli oggetti e strumenti della vita contadina di tutti i giorni, i ferri da stiro, la filatrice per la lana, gli stampi per i biscotti, le pentole, le padelle e parecchi altri utensili della casa agricola dei decenni passati.
Una bella bigoncia su carro
Vorremmo fare un focus di particolare attenzione su un grande attrezzo sistemato nel cuore della Sala Inferiore. Si tratta di una grande bigoncia posizionata su un bel carro a quattro ruote, che un tempo veniva trainato da coppie di buoi. Costruiti entrambi verso la fine degli anni Trenta del Novecento, la bigoncia e questo particolare carro servivano per il trasporto delle uve. Ma la bigoncia veniva spesso utilizzata anche per la pigiatura delle uve, soprattutto quando questa operazione era fatta con i piedi. Era un lavoro riservato agli uomini, che a piedi nudi e con i pantaloni arrotolati all’insù entravano nella bigoncia e cominciavano a calpestare l’uva e ottenevano un mosto denso, perché il liquido era mescolato a bucce, vinaccioli e raspi. Dalla bigoncia, poi, il mosto doveva essere trasferito nel tino per la fermentazione e questo passaggio di solito si faceva con la brenta. Era un uomo robusto, ben saldo sulle gambe e con un’ottima capacità di equilibrio e di manovra che compiva questa operazione: sistemato con precarietà su scale o rialzi, doveva trasferire il mosto nella tina inclinando adagio la brenta che aveva in spalla Un concentrato di forza, abilità e precisione.